(…) Tre anni prima, nel luglio del 1287, sant’ Albertino, il Priore di Fonte Avellana, accompagnato dal conte Giacomo di Coccorano, aveva fatto una visita all’ Abbazia di Montelabate.
In quella circostanza, probabilmente, Donna Frategiana (la moglie e vedova del Conte Ugolino) l’aveva conosciuto, o ne aveva sentito parlare.
E siccome il Priore aveva già riportato la pace tra l’Avellana e il Comune di Gubbio, a Rocca Contrada e in molti altri posti, essa pensò di ricorrere a lui.
Nel passato, un altro Santo si era occupato di Petroia: San Francesco d’Assisi.
Egli fondò un Convento a Caprignone e vi tenne un Capitolo di 300 Frati.
E più volte, andando a Vallingegno, andando o tornando da Gubbio, passò per il territorio di Petroia.
A Sant’ Albertino invece, Donna Frategiana chiedeva di occuparsi direttamente di Petroia e del suo problema sociale.
Una commissione, formata dai rappresentanti dei nobili e del popolo andò all’ Avellana a chiedere al Priore di fare da arbitro.
Chiese una delega.
Questa pergamena, che si conserva a Gubbio nell’ Archivio di Stato, fu scritta il 30 giugno 1290 e il 10 luglio fu ratificata da Donna Frategiana.
Poi, a Gubbio presso la Chiesa di santa Croce del mercatale, che era vicino alla Farmacia dell’ Ospedale di oggi, Sant’ Albertino radunò una commissione formata da quattro Monaci dell’Avellana, dall’ abate di Vallingegno, da un Canonico della Cattedrale e da un’altra decina di persone.
Il 26 settembre emisero la sentenza.
Stabilirono che i Conti dovevano:
- Dare al popolo l’ affrancamento.
L’affrancamento è l’atto con cui si libera uno schiavo.
Erano schiavi gli abitanti di Petroia? Non schiavi, ma quasi.
Erano “servi della gleba”, cioè “scorte”. Mi spiego.
Abitualmente, un podere ha delle “scorte”, cioè cose che servono al podere. Possono essere “scorte morte” (paglia, fieno, attrezzi, ecc.) o “Scorte vive”: il bestiame.
In quel tempo, la famiglia del colono era “ una scorta viva” del podere. Essa, teoricamente era libera, però non poteva lasciare il podere e poteva essere affittata o venduta insieme al podere. Era una cosa normale. E molti atti notarili di quel tempo, parlano della vendita di famiglie insieme al podere.
La commissione stabilì che i Conti dovevano dare al popolo la libertà.
- Rinunciare a ogni azione reale e personale.
Nel Medioevo, il feudatario, oltre l’usufrutto del terreno, aveva il diritto di imporre delle giornate obbligatorie e costringere i sudditi a fargli dei doni. La commissione ordinò che i Conti rinunciassero ai doni e alle giornate gratuite.
- Dare al popolo la quarta parte dei beni immobili al di fuori del Castello.
I beni mobili “semoventi”, cioè il bestiame, il popolo doveva pagarlo entro un anno.
Per il tempo, era una sentenza coraggiosa, un grande progresso verso il riconoscimento della dignità umana, ma era, come lo chiama la commissione, un compromesso e quindi non poteva accontentare tutti. (…)
Da un documento di Otello Marrani, Petroia e Federico da Montefeltro, Tip. Eugubina, Gubbio, 1983.